Le Noterelle Operative Giugno 2024

Le Noterelle Operative Giugno 2024

1) Licenziamento per superamento del comporto: insidie che l’azienda deve tenere in considerazione alla luce della recente evoluzione dell’orientamento giurisprudenziale circa la discriminazione indiretta del lavoratore disabile (C. App. Trento, n. 8/2023, cui ha fatto seguito Cass., 15 maggio 2024, n. 13491).

A cura di Paolo de Berardinis e Lorenzo Cola

Il nostro Studio torna ad approfondire una tematica che, negli ultimi anni, ha riscontrato una crescente centralità nel contenzioso lavoristico, vale a dire quella afferente la legittimità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato nei confronti di un lavoratore in condizioni di disabilità. La Corte di Appello di Trento, Sezione Lavoro (n. 8/2023), cui ha fatto seguito l’ordinanza della Corte di Cassazione (n. 13491/2024), recentemente intervenuta sul tema, offre importanti spunti operativi alle aziende che, nel quadro dell’incertezza prodotta dagli ultimi orientamenti giurisprudenziali, spintisi ben al di là di un ragionevole bilanciamento di interessi tra il datore di lavoro ed il dipendente, verrebbero nella sostanza gravate da una responsabilità oggettiva “extra moenia”.

La tutela antidiscriminatoria prevista dalla Direttiva n. 2000/78/CE e dal D.Lgs. n. 216/2003 dispone, rispettivamente all’art. 2, par. 2, lett. b ed all’art. 2, co. 1, lett. b, che si configura discriminazione indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2, co. 1, lett. b, D.Lgs. n. 216/2003).

L’art. 2, par. 2, lett. b della Direttiva citata prosegue disponendo che la discriminazione indiretta non si configura, tuttavia, laddove vi siano le seguenti esimenti: una di carattere generale, rappresentata dalla finalità legittima o dalla necessarietà dell’adozione dell’atto discriminatorio; l’altra di carattere speciale, rappresentata dall’adozione, da parte del datore di lavoro, dei cd. accomodamenti ragionevoli, volti a neutralizzare la disparità di trattamento del portatore di handicap.

Ebbene, la giurisprudenza europea e nazionale prevalente considera ‘accomodamento ragionevole’, quanto al comporto, lo scomputo delle assenze per malattia collegate alla disabilità dal conteggio utile ai fini del comporto medesimo, laddove il CCNL applicato non preveda già un periodo di comporto prolungato per i lavoratori affetti da disabilità.

Vi sono casi, come quello oggetto della pronuncia in esame, in cui il contratto collettivo pur non prevedendo un periodo di comporto differenziato, dà diritto al lavoratore portatore di handicap, che abbia superato il periodo di comporto, di richiedere, in forma scritta, un periodo di aspettativa non retribuita e non computabile nell’anzianità aziendale. In tali ipotesi, secondo la citata giurisprudenza, vi sarebbe l’obbligo, in quanto accomodamento ragionevole, del datore di lavoro di dare preventivamente avviso al lavoratore dell’imminente superamento del periodo di comporto, in modo tale da consentire al dipendente di richiedere la citata aspettativa per malattia.

Ora, il recente orientamento giurisprudenziale, sia di legittimità che di merito, che sta andando sempre più consolidandosi, fornisce una lettura non condivisibile in termini oggettivi della discriminazione, nel senso che la discriminazione opererebbe obiettivamente, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, prescindendo perciò dalla conoscibilità o meno delle condizioni di disabilità del dipendente. Pertanto, il datore di lavoro sarebbe, per assurdo, chiamato ad adottare accomodamenti ragionevoli anche laddove l’handicap ovvero la correlazione tra le assenze per malattia e la disabilità fossero state taciute dall’interessato.

Osservazioni operative

Ecco, allora, che l’obbligo di comunicazione dell’imminente superamento del periodo di comporto, trattato dalle pronunce in esame, potrebbe essere di aiuto per l’azienda anche laddove il CCNL applicato non prevedesse il diritto del lavoratore disabile a richiedere un periodo di aspettativa per malattia.

Ed infatti, il datore di lavoro, laddove il superamento del periodo di comporto sia prossimo, non avendo ricevuto alcuna notizia circa una ipotetica disabilità del lavoratore, potrebbe venire a conoscenza della sussistenza di un handicap, evitando di porre in essere un atto – a sua insaputa – discriminatorio, comunicando al lavoratore che, visto l’imminente superamento del comporto, ci si appresta al licenziamento. A ciò, con probabile certezza, seguirebbe una comunicazione (documentalmente comprovata) della sussistenza dell’handicap, il che consentirebbe una valutazione ponderata.

Naturalmente, andranno verificate le norme relative al periodo di comporto di cui al CCNL applicato, al fine di valutare gli effetti della comunicazione relativamente al criterio adottato in sede collettiva, se di comporto per sommatoria , ovvero c.d. “secco”.

 

 

2) Contratti di lavoro a tempo parziale organizzati in turni: occorre indicare, con riferimento a ciascun turno, la durata della prestazione e la collocazione temporale dell’orario lavorativo (Cass., 29 aprile 2024, n. 11333).

A cura di Giovanna Flora Ragusa

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11333/2024 del 29 aprile 2024, ha fornito una interessante opinione in merito ai requisiti formali propri dei contratti di lavoro a tempo parziale organizzati in turni.

In particolare, nella pronuncia in commento viene esaminato il caso di un prestatore di lavoro turnista, in regime di part-time verticale, al quale i turni di servizio venivano comunicati dall’Azienda di anno in anno, adottando il medesimo criterio applicato nei confronti dei lavoratori turnisti a tempo pieno.

Il dipendente in questione contestava la legittimità del proprio contratto di assunzione, che si limitava a riportare il numero delle ore annuali di lavoro, delle ore giornaliere, dei turni mensili e dei mesi complessivi di lavoro all’anno, senza precisare la collocazione dell’orario part-time.

La tesi difensiva della Società datrice citava la previsione del Ccnl di riferimento, in forza della quale le imprese comunicano su base annuale la distribuzione dei turni di lavoro, sarebbe stata indistintamente applicabile tanto ai turnisti part-time, quanto a quelli full-time.

In accoglimento della predetta tesi difensiva aziendale, il ricorso del lavoratore veniva respinto in primo grado.

Mentre la Corte d’Appello, in riforma della sentenza del Tribunale, riteneva illegittima la mancata indicazione nel contratto individuale della collocazione della prestazione lavorativa, per contrasto con il disposto dell’art. 3, comma 7 del D.Lgs. n 61/2000 – temporalmente applicabile alla fattispecie- il quale prevedeva l’obbligo di indicare nel contratto di lavoro la distribuzione dell’orario part-time, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese ed all’anno.

L’impresa veniva pertanto condannata a pagare, a titolo di risarcimento del danno, una somma pari al 5% della retribuzione percepita dal dipendente nei periodi lavorati.

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza in commento, confermava la decisione della Corte d’Appello, richiamando in proposito il disposto dell’art. 2, comma 2 del D.Lgs. 61/2000, che stabiliva che “Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”, nonché la successiva novella legislativa di cui all’art. 5 del D.Lgs. n.81/2015, che dispone quanto segue: “1. Il contratto di lavoro a tempo parziale è stipulato in forma scritta ai fini della prova. 2. Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. 3. Quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma 2 può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite“.

A tal proposito la Suprema Corte ha precisato che anche quest’ultima previsione (vale a dire la possibilità di rinvio a turni programmati), deve essere interpretata in coerenza sistematica con i principi espressi nella restante parte della norma, vale a dire nel senso che i turni devono comunque essere indicati per iscritto nel contratto di lavoro.

Ed infatti – sempre ad avviso della Corte di Cassazione – una interpretazione della disposizione di cui si tratta nel senso di consentire all’Azienda di non indicare la collocazione dell’orario di lavoro nel contratto a tempo parziale “si porrebbe … contro la ratio protettiva del part time … la quale richiede invece una immediata indicazione dell’articolazione oraria dell’attività al fine di consentire al lavoratore una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero; posto che la normativa si pone l’obiettivo di contemperare le esigenze del datore di lavoro di utilizzazione della prestazione in forma ridotta e del lavoratore di poter consapevolmente organizzare il suo tempo, in modo da poter gestire le sue attività di lavoro ulteriori e di vita quotidiana”.

Queste esigenze di tutela dei lavoratori part-time erano state già in precedenza evidenziate nella sentenza n. 210/1992 della Corte Costituzionale, la quale aveva affermato che “non vi è quindi alcuna ragione, né alcuna possibilità di attribuire alla normativa una interpretazione tale da consentire la pattuizione di contratti di lavoro a tempo parziale nei quali la collocazione temporale della prestazione lavorativa nell’ambito della giornata, della settimana, del mese e dell’anno non sia determinata o non sia resa determinabile in base a criteri oggettivi ma sia invece rimessa allo ius variandi del datore di lavoro“.

Alla stregua della normativa nazionale, come interpretata dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, dunque, nel contratto di lavoro part-time devono essere indicati i turni con precisione, al fine di rendere noto al lavoratore come dovrà essere eseguita nel tempo la propria prestazione.

Pertanto, le imprese che intendano stipulare un contratto di lavoro a tempo parziale articolato in turni, dovranno avere cura di specificare, non solo la durata della prestazione lavorativa, ma anche in quali giorni ed orari la stessa dovrà essere resa.

Osservazioni operative

Per contemperare tale principio con le esigenze organizzative delle Società, come noto suscettibili di cambiamenti anche frequenti, è possibile inserire nei contratti di lavoro le c.d. ‘clausole flessibili’, che permettono la variazione della collocazione temporale della prestazione, ovvero le c.d. ‘clausole elastiche’, che consentono di aumentarne la durata.

Potrebbe inoltre suggerirsi di indicare, anche in via prognostica, quelli che potrebbero essere in ragione delle articolazioni dell’orario di lavoro, i turni assegnabili, rispettando sempre un congruo preavviso in caso di variazione.

E’ importante avere cura che tali clausole vengano pattuite espressamente nel contratto di lavoro. Inoltre, va considerato che, nel caso di variazione dell’orario, il dipendente avrà diritto ad un preavviso, come detto, nonché a specifiche compensazioni, nella misura e nelle forme determinate dal Contratto Collettivo di riferimento.

Infine, è consigliabile che le Aziende siano in grado di dimostrare che eventuali modifiche dei turni di servizio dei lavoratori part-time che avvengano al di fuori dell’ambito di applicazione delle citate clausole, siano eccezionali e, comunque, dovute ad esigenze oggettive impellenti ed improrogabili (es. sostituzione di colleghi assenti per malattia. E’ necessario, quindi, che tali comunicazioni avvengano sempre per iscritto e siano tempestive.

Tali accorgimenti consentiranno alle Aziende di cautelarsi rispetto ad eventuali pretese risarcitorie dei dipendenti per violazione della normativa sul contratto di lavoro a tempo parziale.

La puntuale e, necessariamente certosina, attività consigliata, costituisce l’unico modo attraverso il quale evitare qualsivoglia problematica con riferimento all’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro.

 

3) Infortunio del dipendente: nessuna responsabilità dell’Azienda che ha correttamente assolto i propri obblighi di informazione e formazione dei lavoratori (Cass., IV sez. pen., 28 maggio 2024)

A cura di Giovanna Flora Ragusa

La Corte di Cassazione, IV Sezione penale, con sentenza pubblicata il 28 maggio 2024, si è espressa in merito alla responsabilità dell’Azienda conseguente all’infortunio occorso ad un lavoratore durante l’esecuzione della prestazione.

In particolare, nella pronuncia in commento viene esaminato il caso di un dipendente di una società affidataria ed esecutrice di lavori di manutenzione su reti ed impianti del servizio idrico integrato, il quale era costretto a sospendere l’attività di scavo che stava svolgendo assieme ad un collega, a causa della rottura accidentale di un tubo del gas.

Il lavoratore, interrotte le predette operazioni, contattava i tecnici dell’azienda distributrice del gas, i quali, rilevato che la tubatura danneggiata era in parte ricoperta da uno strato di cemento, richiedevano al dipendente di rimuovere tale copertura, onde consentire le operazioni di riparazione.

Il prestatore, contravvenendo alle disposizioni di sicurezza impartite dalla datrice di lavoro –come si dirà in seguito-, entrava nello scavo con un demolitore, da cui partiva una fiammata che lo colpiva al volto, cagionandogli ustioni coinvolgenti il 10-19% della superficie corporea: le predette lesioni provocavano al lavoratore una incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un periodo superiore a quaranta giorni, situazione questa che come noto qualifica le lesioni come gravi.

La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, di condanna dell’Amministratore della Società datrice di lavoro per il reato di cui all’art. 590, comma 3, cod. pen. (i.e. lesioni personali gravi colpose commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), rideterminava la pena in 206 Euro di multa, revocando il beneficio della sospensione condizionale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha annullato senza rinvio la pronuncia impugnata perché “il fatto non sussiste”, ponendo a fondamento della propria decisione le seguenti argomentazioni: “la valutazione del rischio esplosione-incendio era stata adeguatamente compiuta dal datore di lavoro in quanto:

  • il POS (‘piano operativo di sicurezza’, n.d.A.), (…) prevedeva espressamente la procedura da seguire in caso di danneggiamento dei cavi sotterranei: segnalare l’accaduto al responsabile del cantiere, mettere in sicurezza il sito, allontanarsi dall’area, attendere la squadra dell’ente gestore dei sottoservizi e le indicazioni del preposto prima di riprendere i lavori;
  • il PSC (‘piano di sicurezza e coordinamento’, n.d.A.), (…) prevedeva analoga procedura e specificava che era vietato eseguire riparazioni, anche se provvisorie, di tubazioni danneggiate durante le operazioni di scavo; lo stesso PSC prevedeva, inoltre, il divieto tassativo di fumare, utilizzare fiamme libere e macchine alimentate a energia elettrica in prossimità di tubazioni scoperte”.

La Suprema Corte ha dunque precisato che, poiché entrambi i documenti ora citati prevedevano espressamente, in caso di rottura di una tubazione, il divieto assoluto di riprendere qualunque tipo di attività in assenza di specifica indicazione del preposto, il POS e il PSC sono risultati completi ed esaustivi e non dovevano, pertanto, contenere ulteriori divieti. Inoltre, già la Corte d’Appello aveva accertato che su queste procedure gli operai erano stati adeguatamente formati ed informati.

Ha così concluso la Corte di Cassazione nella pronuncia in esame, affermando che “Ritenuti, dunque, assolti da parte del datore di lavoro gli obblighi su di lui incombenti di informazione dei lavoratori sui rischi specifici connessi al tipo di attività svolta (art. 36 D.Lgs. n. 81/2008) e di formazione sui rischi riferiti alle mansioni e sulle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda (art. 37 D.Lgs. n. 81/2008), la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, in quanto il fatto di reato ascritto all’imputato non sussiste”.

La responsabilità dell’impresa per gli infortuni sul lavoro dei propri dipendenti è, invero, una tematica estremamente rilevante e delicata, che può comportare conseguenze non solo di natura penale e civile, quest’ultima relativa sia al lavoratore che all’INAIL.

Ed infatti, l’art. 2087 del cod. civ. prevede che, in caso di infortunio sul lavoro, risponde dei danni subiti dal dipendente il datore di lavoro che omette di adottare tutte le misure idonee e necessarie a tutelare l’integrità fisica del prestatore, gravando su quest’ultimo l’onere della prova in ordine al fatto materiale, al danno subito ed al relativo nesso di causalità e, solo all’esito di tale prova, dovendo il datore di lavoro dare conto di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno.

In particolare l’Azienda, al fine di assolvere l’onere probatorio sulla medesima gravante, deve essere in grado di dimostrare di aver correttamente adempiuto ai propri obblighi di valutazione dei rischi per la sicurezza, nonché di informazione e formazione dei dipendenti, oltre che di vigilanza sul rispetto delle misure di sicurezza da parte dei lavoratori.

Osservazioni operative

In termini operativi, i passaggi necessari riguardano:

(i) l’elaborazione e l’aggiornamento costante del documento di valutazione dei rischi (DVR), nel quale deve essere analizzata ciascuna fase operativa dell’attività svolta, ai fini del rilevamento dei fattori di rischio. E’ di fondamentale importanza che il documento in questione, come previsto dall’art. 28 co. II D. Lgs. 81/08 sia munito di data certa. In caso di assenza di data certa sul DVR, infatti, si possono configurare conseguenze penali di diversa natura;

(ii) la formulazione per iscritto di procedure aziendali, tali da portare a conoscenza dei dipendenti, che forniscano indicazioni in merito alle corrette condotte che i prestatori devono adottare, in linea con le valutazioni contenute nel DVR;

(iii) l’attuazione di regolari controlli in merito all’osservanza, da parte dei dipendenti, delle predette procedure e delle misure di sicurezza (ove possibile, sarebbe preferibile che di tali controlli vengano tenuti appositi registri scritti);

(iv) la frequentazione di lavoratori (coerentemente alle mansioni disimpegnate) di specifici corsi di formazione che riguardino i rischi correlati all’attività dai medesimi disimpegnata. A tal riguardo si dovrà aver cura di archiviare e conservare gli attestati comprovanti la frequentazione dei predetti corsi.

Tali accorgimenti consentiranno alle Aziende di cautelarsi rispetto ad eventuali azioni civili e/o penali dei dipendenti, per violazione della normativa in materia di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori. Vicende come noto complesse che vanno “pensate” prima del loro necessitato impiego.